Nel considerare l'arte – e non la storia dell'arte – come un cerchio, credo che ormai siamo tanti a crederci, anzi sarebbe meglio affermare che siamo stati tanti a crederci, fin dai tempi di Giorgio Vasari e forse ancora prima. Cicli e ricicli, “torni” e ritorni dell'arte ci hanno ormai comodamente convinti ad un'abitudine critica che, a volte, sembra sfiorare il mito, tutto contemporaneo, della MODA.

Consideriamo proprio questa nuova (?) proposta artistica di Wang Quingsong come un CERCHIO, il cerchio dell'arte che racchiude abilità tecnica, manipolazione visiva, riscontro culturale, il tutto mixato insieme on the rocks.

Cinese, della provincia di Hubei, 38 anni o qualcosa in più, Wang riesce, in questo nostro esile inizio secolo d'arte fatto di piccole manipolazioni mediali viste e riviste, a proiettare il proprio cerchio mentale – e non mediale – negli U.S.A. della big apple dell'arte, ma anche del mercato, contemporaneo, lontana, quasi come la stessa Cina, dal resto dell'America. Più che “ritorno” di dechirichiana memoria il “progetto Wang” ci sembra più legato alla figura concettuale e cabalistica del cerchio, come già annunciato, una figura geometrica di perfetta derivazione analitica che racchiude il tutto e da cui il tutto nasce, si sviluppa e torna.
In breve è tutto. Tutto concettualmente racchiuso qui – e non è poco visti i tempi – tutto concretamente racchiuso in una gigantografia fotografica, per la cronaca ed i curiosi 1,2 metri x 6 di Romantique (2003).
Tanti personaggi in uno spazio idilliaco, sia come ambiente naturale sia come concentrazione di riscontri iconografici. Tanti personaggi fissati nelle loro pose storiche, quelle per intenderci della storia dell'arte, riverberi iconografici di un passato forse anch'esso idilliaco – quanto? – ricreato da Wang mediante una sua rilettura dei corpi dell'arte.
Riuniti insieme presso gli studi cinematografici cinesi Bejing Film Studios le ignare comparse di Wang divengono concetti di un ritorno, come già affermato, a vecchi amori, di antichi ricordi per lo più d'occidentale derivazione ed, in qualche modo, simbolo di una confusione culturale che sovrappone passato e presente, prossimo e remoto, quasi in uno stato di catalessi confusionaria, appunto, e storicistica.
La megafotografia, elaborata nel tempo dei suoi micro-frammenti strutturali per mezzo di una serie di negativi, diventa un'enorme bobina ricca di immagini e di simboli che in qualche modo, e non sappiamo fino a che punto, ricordano, a noi ignari occidentali, gli antichi inchiostri cinesi elaborati su preziosi rotoli di lieve pergamena. Wang rilegge e riguarda tutto:
- dalla Venere di Botticelli – un po' meno elegante il modello cinese rispetto al precedente fiorentino
- alle Bagnanti di In gres, appena accennate ai lati della chinese Venus
- passando per Adamo ed Eva di Michelangelo ed ancora perciò il Rinascimento
- Grazie canoviane o, in ogni modo, neoclassiche
- dalle dolorose amanti incappucciate di Magritte
- ai bagnanti che simulano, ma in maniera leggera ed appena accennata, il Battesimo di Cristo di Piero della Francesca
Il leggero – come carta da riso – gioco del riscontro iconografico potrebbe essere continuo, anche se non crediamo che sia questo il senso dell'operazione di Wang Quingsong; quel suo voler trasportare il passato in un presente gradevole e arcadico, dove cinquanta modelli riprendono altri modelli di altre culture e storie dell'arte, in modo da ri-svolgere un'immobile riproposta del “tempo che fu” all'interno di un ricreato – il falso più falso – giardino di delizie.
L'occhio si perde comunque nella grandezza dell'orizzonte voluto, così come nei particolari del riepilogo artistico: in primo piano, a sinistra, risaltano possenti i personaggi del Déjeuner sur l'herbe di Manet che compongono, quasi un raccordo/disaccordo con quella sorta di Maya goyesca seduta però su un risciò asiatico. Assoluta ed inquietante la donna nuda di Wang ripercorre il senso di un'iconografia sacra e/o segreta, degna di quella confusione di cui parlavamo in precedenza. O ancora: allegoria di una sintesi culturale estrema che ricorda la passione del grande sordo iberico per le chinoiserie ottocentesche?
La “scena inscenata” di Wang, dal punto di vista del pensiero globalizzato, potrebbe dare anche l'idea di una riproduzione tarocca della storia dell'arte, alla stregua di molta merce made in China che offre, a volte in maniera illegale e con prezzi e qualità più bassi rispetto al legale, oggetti ed altri elementi del nostro vivere quotidiano, occidentale, originale.
Nello stesso tempo Wang sembra rientrare perfettamente nel senso della tradizione fotografica, ma anche culturale, nella quale è cresciuto e alla quale, fino ad un certo punto, ha creduto. Quella per intenderci di una fotografia politica, o meglio di esposizione politica.
Pensiamo ad esempio alle fotografie, per così dire, “di corte”, da quelle dell'epoca di Mao fino a quelle della famigerata BANDA DEI QUATTRO, solo per rimanere in ambito cinese, di finta impostazione perciò, tipica dei regimi dittatoriali, dove il popolo è sempre felice ed in lotta. Così come il dittatore è sempre forte, possente, sicuro, circondato di amici fidati, i quali in ogni caso potrebbero sempre sparire o essere sostituiti nella riproduzione successiva, da altri nuovi più fidati – almeno per ora – amici, durante l'attesa di una prossima scena.
Ma a prima vista non ci sembra molto pertinente l'invocazione politica nell'opera di Wang, ma più che altro contenuto di lettura estrema con la voglia – e l'aspirazione – che l'arte inizi a dire ed esprimere qualcosa di veramente contro, non ci serve il nuovo ma il contro assolutamente si, anche nel cerchio in modo che non finisca per stringere troppo e SOFFOCARE.

© riproduzioni fotografiche N.Y., salon 94 Gallery/ Cuortyard Gallery, 2004

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