Effetto Zavattini

Silvana Cirilli

Nell’ottobre 1902 nasceva Cesare Zavattini, uno dei più poliedrici artisti e fecondi intellettuali che il nostro ‘900 abbia avuto. Scrittore, soggettista, sceneggiatore, giornalista, pittore, organizzatore culturale, vero maître a penser, Zavattini ha vissuto cinquanta anni di vita culturale italiana, mostrando una capacità unica di cogliere ancora in embrione la fisionomia del nuovo e le tendenze del cambiamento, di intuire le potenzialità dei moderni mezzi di comunicazione e dei loro linguaggi, assumendo il ruolo autentico di maestro e modello per generazioni di studiosi e artisti. E’ ormai riconosciuto che giornalismo e cinema non sarebbero quello che sono senza il suo contributo.

La sua “poetica della meraviglia” si propose senza dubbio come ponte tra la letteratura nostrana e le coeve avanguardie europee: “Noi ci meravigliamo ancora troppo poco della realtà, non la si conosce realmente se non provoca stupore. E’ questa meraviglia che provoca a sua volta un’ulteriore conoscenza e insieme un’avversione per le forme concluse, perché le forme tutte sono sempre in gestazione”. Basterebbe già questa breve riflessione a far luce sui meccanismi intellettuali e artistici che muovono la sua scrittura, come gli ingranaggi dei suoi film, il cui realismo è così intessuto di piccole meraviglie e sorprese quotidiane che Za stesso li chiamò “le nuove favole”.
L’obiettivo più ambizioso dello Za scrittore era quello di realizzare un linguaggio che riuscisse ad essere stupefacente, complesso della complessità del pensiero e della vita stessa, e che insieme si presentasse


Fratini con figura rossa e crocifisso
tecnica mista, 1945
(proprietà di Luciano Luisi)
estremamente naturale e immediato: perciò Za scriveva e riscriveva i suoi testi, comprese le lettere spedite in gran quantità a tutto il mondo e sostava a lungo e ritornava infinite volte su una stessa parola; ma quando questa finalmente vedeva la luce, sembrava nata miracolosamente in quel preciso momento. E quando attorno al ’68 Za temette che la parola non fosse più in grado di esprimere immediatamente la gravità di un momento e di una situazione, la disconobbe addirittura e, già settantenne ma sempre scapigliatissimo e rivoluzionario, scrisse il suo manifesto antiletterario, il Non libro più disco.

Zavattini non ha mai smentito le sue posizioni ideologiche e artistiche di rottura nei confronti del canone e di avversione a qualunque soggezione meccanica alla classicità, a modelli letterari ereditati, a parole abusate: la sua ricerca schietta del nuovo gli ha fatto imboccare strade poco battute e difficili da percorrere, le uniche però in grado di garantirgli una sua modernità.
La leggerezza e la effervescenza delle trovate, il coraggio delle scelte linguistiche, il rifiuto dei limiti imposti dal genere conchiuso, l’avversione dichiarata alla formula borghese del romanzo d’intreccio, la pratica della comicità in tutte le sue gamme, la fiducia accordata al sogno e al desiderio sono lo specchio fedele di un’epoca di stravolgimenti e svecchiamento, di cui Za ha colto immediatamente lo spirito ed è stato protagonista più che testimone.
Cinema e letteratura hanno finito, però, per mettere in ombra un altro aspetto importante dell’attività di Zavattini, la pittura. Za la amava talmente che progettò premi e Lotterie per diffonderne il gusto, organizzò collezioni private per terzi (dal sarto Baratta al regista De Sica) per sé (i famosi quadretti “minimi” di artisti italiani e stranieri), infine volle cimentarsi anche lui coi pennelli: “La pittura, molte volte mi ha dato il senso di non lasciarmi spazio di giudizio come la scrittura – diceva – cioè apparteneva ad una mia erezione (sì delle volte avevo messo la pittura al livello del ‘fottere’, come momento creativo, meraviglioso …) positiva come quando mangio, bevo, tutte cose più o meno omogenee agli altri e non di più”.

“… La sua pittura è gesto e voce – scriveva invece Carlo Giulio Argan – parola che si vede, con tutta la dolcezza, l’asprezza, la collera che si può mettere in una parola detta. I preti dicono che si può peccare con gli occhi, ma allora con gli occhi si possono fare delle buone azioni. I quadri di Zavattini sono buone azioni fatte con gli occhi, sguardi umani sul mondo”.

La forza dell’arte di zavattini, letteraria, cinematografica o pittorica che sia, che di primo acchitto sembra così soft e in punta di matita, sta in realtà proprio nel penetrare nei meandri dell’uomo qualunque, nelle sue debolezze, nelle sue ansie, nei suoi sogni, nei suoi giochi mentali, nei suoi desideri riposti. Dalla guerra in poi, da Ipocrita 43 in poi il centro dei rovelli zavattiniani e della sua poetica sarà proprio quest’uomo. L’uomo, che Za sente subito uguale a se stesso e di cui indirettamente parla anche quando scrive un diario o dipinge un autoritratto: “… Per la verità il pennello nel lavorare la mia faccia era come se percorresse migliaia di anni, un trascolorare da un’età all’altra nello spazio di pochi centimetri, da una rana a un lupo a un antenato, un po’ come nel ventre materno e nella realtà tout-court, quindi!”.

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