Zavattini e la fotografia

Aldo Demartis

Durante il suo intervento al convegno di Roma “Effetto Zavattini, tra aprile e maggio 2003, Walter Pedullà ha parlato di “arcipelago Zavattini” e di come sia utile che le varie isole: letteratura, cinema, pittura, non si congiungano ma rimangano staccate.
Una piccola scoperta sembra aver fatto sorgere, sotto la spinta del magmatico Zavattini, un nuovo isolotto affiorante dal ribollio del mare. In un percorso sotterraneo la lava incandescente ha compiuto il suo viaggio da Luzzara a Diamante. Un “subito” e un “dopo” per usare le categorie zavattiniane individuate da Siciliani de Cumis nella giornata conclusiva dei lavori alla Casa delle Letterature.
Il “subito” risale al 1953, quando, il famoso fotografo americano Paul Strand chiede a Zavattini di fare un libro insieme. Da questo sodalizio esce nel 1955 il libro Un paese: Strand ha fotografato Luzzara, (il paese di Zavattini) che doveva rappresentare un paese campione in cui poter riconoscere il proprio.
In che modo Zavattini è presente a Diamante? Si tratta di prendere in considerazione il “dopo” di questi giorni: la scena si svolge durante il ricevimento studenti di Siciliani: Angela, laureanda con una tesi sui murales di Diamante, sta raccontando la storia di un palestinese: Baruc Kadmon che ha dipinto, sulla parete di una casa, una famiglia contadina, “la sua gente”, uomini «passivi, vuoti, in attesa, che mormorano inschallah (Dio lo vuole)».
Quando Siciliani ci fa vedere l’immagine dei presunti palestinesi scopro che quella altro non è che la famiglia Lusetti di Luzzara ritratta da Strand.
Baruc, nel 1981, a distanza di quasi trent’anni, si è rispecchiato in una famiglia italiana del dopoguerra così simile alla sua gente: una sorta di cortocircuito temporale degno di quello che Gianni Amelio ha provato durante la sua permanenza in Albania per le riprese del film Lamerica.
Le condizioni di vita degli albanesi, somigliavano in modo incredibile ai calabresi dell’infanzia di Amelio: è un modo di collegare proustianamente due momenti della vita di uno stesso individuo e miracolosamente rivivere i momenti irripetibili e nostalgici della propria infanzia.
A distanza di cinquant’anni le intuizioni zavattiniane trovano conferma, l’immagine della famiglia Lusetti, una famiglia campione, è ancor oggi un’immagine di un dopo dilatato a dismisura in cui persone di paesi di tutto il mondo possono ancora rispecchiarsi e capire che, pur nella diversità, si appartiene a quell’unica umanità di cui tutti siamo parte.
La scoperta del murales di Diamante ha aggiunto un tassello al modo in cui la famosa immagine è stata usata dal giorno della sua prima pubblicazione avvenuta nel 1955.
Zavattini incontra Strand al congresso dei cineasti nel 1949 e, a giudicare dalle cose che scrive di lui, c’è da credere che quella volta a Perugia, fu realmente intimidito dal silenzio di Strand. Quel fotografo aveva girato il mondo intero osservando le cose e gli uomini: «dappertutto trovando il punto luce e di linea di quando le cose hanno assorbito la nostra presenza e la nostra fatica, anche un albero non è mai solitario per Strand, lui è l’altro albero ».

A Po, Strand si è fermato con la macchina fotografica davanti a un bosco tagliato, spuntavano da terra i tronchi per quattro o cinque palmi e a socchiudere gli occhi parevano uomini anzi soldati in marcia. Strand è calmo, guarda l’oggetto poi subito il cielo, ingoia le immagini come il formichiere [...].

Viaggiava, lo sappiamo, ma era sempre fermo. Faceva dei conti elementari, assoluti. Mai poteva cadere nello stupore dell’esotico: quando andava nell’immenso Messico o nel mio piccolo paese padano, era la stessa cosa, svolgeva lo stesso tema, il valore del nostro essere.
Su questo insisterei, mi sembra quasi una modesta scoperta. Il modo di girare gli occhi di Strand era di uno che aveva una innata misura dello spazio e del tempo, come una clessidra nel corpo, uno strumento nautico: dove attingeva; in un posto qualsiasi in cui pareva non ci fosse nulla, un minuto dopo dei calcoli e dei silenziosi lampi del cuore c’era qualche cosa di importante.
Nel 1953 Strand si reca a Roma e con la sua calma da patriarca dice a Zavattini: «Facciamo un libro insieme?» Questa richiesta cade a fagiolo, perché proprio in quel periodo Zavattini sta studiando con Einaudi una collana intitolata Italia mia che doveva spaziare dalle domestiche di Milano, Roma, Napoli, agli impiegati, ai contadini; questi dovevano essere intervistati lungamente, fotografati, o pedinati dalla mattina alla sera.
La scelta del luogo dopo aver pensato a Gaeta, Gorino del delta Padano, Alatri, ricade sul suo paese: Luzzara. Doveva essere un paese campione perché, come dice vent’anni dopo, più una cosa è prossima e più non la sappiamo.
Strand percorre Luzzara per un mese, sembrava un agente del fisco, dice Zavattini, tocca il catenaccio di una porta, davanti alla bottega del sellaio aspetta che non ci sia un alito di vento, perché i finimenti devono essere come fermi da sempre.
Strand in compagnia della moglie gira il paese consultando una cartina regalata dal sindaco, Zavattini non l’aveva mai fatto e lì inizia a conoscere meglio il suo paese: i nomi delle contrade di campagna, delle cascine.
Ne viene fuori un cocktail irripetibile, le persone, (gli altri), le cose (l’altro) sono fissate sulla carta fotografica con quella macchina d’altri tempi. Alle immagini si unisce un testo che anche a distanza di tanti anni è come l’anima di quelle sia pur validissime immagini.
Si resta colpiti dal modo con cui i soggetti fotografati sembrano parlare, raccontando le loro storie legate ora a impressioni di ragazzi, ora segnate da terribili esperienze come la portalettere che ha avuto il marito fucilato perché era partigiano; ora la storia di una vecchia che per il tutto il giorno ha fatto andare le dita come una macchina per fare la treccia, ma che con quel lavoro potrà comprare solo un chilo di pane.
E visto che nel testo del libro Zavattini ha scritto:

L’enciclopedia Treccani, a p. 709 del XXI volume, dice che Luzzara è una piccola cittadina nota sin dal tempo dei Franchi, dove ci fu una cruenta battaglia tra il duca Vendome e il principe Eugenio di Savoia, dice che Luzzara fu già dei Gonzaga e conserva ancora qualche avanzo di questa dominazione ducale, e i suoi abitanti, comprese le frazioni, sono più di diecimila, e distano meno di un chilometro dal Po e la sua terra è fertilissima.

A distanza di quarant’anni la descrizione di Luzzara alle pp. 986-987 del VI volume della Piccola Treccani del 1995 non è molto dissimile da quella.
La curiosità sta nel fatto che alla Tav.88 del volume XI, dedicata alle fotografie di Paul Strand, è stata pubblicata la fotografia di copertina del libro Un paese, riportata anche a pagina 81 con la seguente didascalia:
Mi sono sposata a 18 anni e ho fatto 15 figli di cui 4 sono morti piccoli. Nel ’21 mio marito Lusetti venne bastonato poi fu battuto ancora nel 1926, non ho mai saputo il perché di tutto questo, so solamente che è stata la causa della sua morte. Nel ’33 per la vigilia di Natale è morto mio marito lasciandomi in miseria con 8 figli maschi e 3 femmine. Durante la guerra i miei cari figli sono stati militari in Italia, Francia, Grecia, Germania, Africa; Inghilterra. Meno il più giovane che aveva solo sedici anni. Nel ’46 eravamo tutti insieme dopo 14 anni di dolore materno. Sogno di avere una casa vicino a una chiesa per andarci spesso. Mio figlio Bruno dice sempre voglio lavorare la nostra terra, con le macchine, come trattori e simili. Sono 55 biolche e dividiamo il 43% noi e il 47% al padrone, compreso il lavoro delle donne prendiamo settanta lire all’ora. Si lamentano tutti che è un mestiere da umiliazioni. Remo ha visto quando suo padre lo hanno picchiato in Via Catania a Campagnola, c’era una macchina ferma e cinque o sei persone, saranno state verso le 17. Nino dice che non ha mai capito perché hanno fatto la guerra, Nino è stato prigioniero in Africa dove si è trovato con il fratello Valentino, prigioniero anche lui. Afro è stato in treno la prima volta quando è andato militare nel ’43, poi è scappato a casa.
Guerrino ha avuto la salute un po’ toccata dalle botte che ha preso in Germania, Nando era là anche lui e per non morire ha mangiato anche una pelle di coniglio, abita 8 chilometri lontano da me perché nella casa del podere non c’è posto per tutti. E’ una casa che ci piove dentro. Nel ’45 mi hanno domandato se avevo voglia di vendicarmi, ma non avevo voglia di vendicarmi.

Questa nota di Zavattini aiuta la lettura dell’immagine, la vivifica insufflandogli l’anima. La madre nella foto parla di sé e dei suoi figli: Nino si è trovato prigioniero in Africa senza capire il perché hanno voluto la guerra, Nando per sopravvivere ha mangiato la pelle di coniglio.
Gli echi della guerra sono ancora vivi nel ’54, questi echi di guerre che pochi hanno voluto e che nel mondo ci sono state: «Se si va a scavare nel giro di qualche centinaia di metri, si troverebbero dei crani di soldati morti qui per interessi che gravitano altrove. Si saranno uditi i soliti pianti dei privati e uditi i soliti lamenti dei feriti» .
Echi anticipatori di guerre che ci saranno, e di guerre che ci sono, matureranno in quella che sarà una parola d’ordine di Zavattini: la pace.
Il secondo libro fotografico viene alla luce nel 1976, e nonostante Zavattini sia invecchiato, Luzzara si trova sempre sulla riva destra del Po.

«Piccola storia “di una” fotografia»

A questo punto appare doveroso mostrare l’inizio di una ricerca, che avrà in seguito la possibilità di espandersi cospicuamente, e che per ora ci mostra le diverse connotazioni in cui, una stessa immagine, può essere usata. In questo piccolo campione La famiglia di Luzzara è stata impiegata per mostrare il sociale, il fotografo stesso, un aspetto della storia dell’architettura e per uno studio del 1968 dell’Istituto di Etnologia e Antropologia Culturale dell’Università degli studi di Perugia.
Come è stato detto, la foto appare pubblicata per la prima volta nel 1955 e fa da copertina al libro di Cesare Zavattini e Paul Strand, Un Paese.
La foto, sempre nel 1955 viene proposta su «Cinema nuovo»:


«Cinema Nuovo»
a. IV, n. 53, 25 febbraio 1955, p. 144.

La foto è stata da quell’anno pubblicata tantissime volte, e la lastra originale è stata aggiudicata all’asta per cifre da capogiro, impensabili fino a qualche decennio fa. Nel 1997 l’immagine identifica il suo autore:

Fra queste due date nella ricerca appena iniziata sono stati trovati altri luoghi in cui l’immagine è stata pubblicata e vengono di seguito mostrati.

In un libro che pubblicava la mostra Immagini della famiglia italiana in cento anni di fotografia, organizzata dal Centro Informazioni Ferraia e dall’Istituto di Etnologia e Antropologia Culturale dell’Università di Perugia, troviamo la foto di Strand. La fotografia come documento, come registrazione visiva di una realtà, «lo specchio dotato di memoria» veniva definito ai tempi dei dagherrotipi. Viene registrata «un’impronta» capace di provocare nel destinatario una sensazione visiva che è quasi quella che avrebbe provato trovandosi al posto della macchina fotografica.


AA.VV., La famiglia italiana in 100 anni di fotografia,
Centro informazioni ferrania/Cooperativa
«Il libro fotografico», Milano, 1968.

Nel 1974 la foto compare a pagina 122 del libro Fotografia come arte di Kahmen Volker:


K Volker, Fotografia come arte, Gorlich Editore, 1974.

Nel 1976 viene riproposta da Zavattini e Berengo Gardin con la fotografia di 20 anni dopo:


C. Zavattini, fotografie di G. Berengo Gardin, Un paese vent’anni dopo, op. cit., p.18.


Ivi, p. 19.
Nel 1987 troviamo la foto in un contributo a cura della Provincia di Roma. Assessorato Pubblica Istruzione e cultura. Il saggio Architettura e storia della fotografia di Piero Berengo Gardin trova in Un paese «un’opera fotografica di cultura urbana»:

[...] “Un paese si guarda è anche la proposta fotografica di architettura tra le più esplicite e dirette che si possano annoverare. Ha soprattutto il grande pregio dell’opera didattica e persino didascalica, ciò per merito indiscusso di Cesare Zavattini che ne promosse la griglia di lettura, districandosene tra inchiesta diretta e poetica affabulazione. “Un paese” ha le giuste connotazioni per essere un’opera fotografica di cultura urbana così come lo furono nel 1942, “Ossessione” di Luchino Visconti e , nel 1957, “Il grido” di Michelangelo Antonioni, romanzi storici dell’architettura e della civiltà urbane del delta padano, film pensati non con gli strumenti del rilevatore scientifico o del giornalista, ma con il diaframma dell’educazione sentimentale e del romanzo dei sensi.


AA.VV., La Fotografia nella scuola, a cura della Provincia di Roma Assessorato Pubblica Istruzione e Cultura – A.R.C.I., Edizioni Kappa, Roma, 1987, p. 35.


Ivi, p. 35

Infine la foto viene proposta per ben 2 volte nell’Enciclopedia Treccani:
La prima volta alla tavola XIII del vocabolario alla voce «sociale»:


Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, II Edizione, Il vocabolario Treccani, 1997.

Nella tav. 88 del VI volume della Piccola Treccani del 1995, tutta dedicata a Strand, essa appare ancora una volta come una delle sue foto più famose:

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